La Banca Mondiale finanzia prevalentemente le fonti fossili

Abbiamo visto qui come alcuni settori del mercato globale si siano ormai orientati spontaneamente e decisamente verso “la green economy”: nel campo dell’energia, per esempio, gli investimenti verso le fonti energetiche pulite hanno ormai superato quelli verso le “fonti tradizionali” (fossili).

Suonano quindi tanto più fuori luogo tutti i casi in cui soggetti economico-finanziari o industriali tornano ad investire in maniera preponderante verso le fonti fossili, quasi come una azione anacronistica.

E’ il caso della World Bank, che solo nel 2010 ha investito nei paesi in via di sviluppo 3,4 miliardi di dollari per il carbone (4,4 considerando anche gli investimenti sulla rete), in contraddizione con il suo dichiarato impegno per il clima: secondo la Banca questo sarebbe l'unico modo per soddisfare la fame energetica dei paesi emergenti, ma in molti non sono d'accordo (anche considerando il fatto che WB si dice impegnata a difendere il clima).

Non solo gli investimenti del 2010 sono preoccupanti, ma è preoccupante anche il trend storico di investimento della WB: dal 2006 al 2009 –infatti- i finanziamenti della Banca Mondiale alle fonti fossili sono passati da 1,5 a 6,2 miliardi di dollari all'anno, mentre i finanziamenti verso progetti di efficienza energetica e rinnovabili nel 2009 sono stati poco più di 3 miliardi.

Si tratta di numeri che anche da soli descrivono bene la contraddizione della politica e dell'azione di quest'istituzione, che da una parte si candida a gestire gli aiuti al terzo mondo per rallentare il cambiamento climatico e difendersi dalle sue conseguenze, mentre dall'altra continua a promuovere quelle fonti energetiche che sono la concausa del problema.

La World Bank replica alle critiche sostenendo che fonti economiche come il carbone sono l'unica soluzione possibile per soddisfare la crescente fame di energia di alcuni paesi in via di sviluppo e, dunque, necessarie a combattere la povertà.

Ma molti analisti non sono affatto d'accordo sul fatto che legare per almeno altri 40-50 anni -tanto dura una centrale a crabone- il destino di aree povere ad una fonte problematica come il carbone sia la soluzione migliore per contrastare l'indigenza: su questa la posizione si è schierato anche il Sierra Club indiano.  

Il carbone non è effettivamente un buon aiuto contro la povertà in primis a causa delle sue esternalità negative (che spaziano dai costi sanitari, all'inquinamento, agli effetti sul riscaldamento climatico globale) e a causa del suo prezzo di vendita (destinato ad aumentare con l’avvicinarsi del peak oil, come quello di ogni altro combustibile fossile).

Il Sierra Club indiano introduce un altro problema di sistema, sostenendo che il problema dell'accesso all'energia elettrica –attualmente effettivamente negato ad 1,5 miliardi di persone nel mondo- non si risolve con le grandi centrali quanto con piccole reti elettriche rurali, utili anche per favorire la diffusione di una produzione energetica decentralizzata, generata da piccoli impianti a fonti rinnovabili.

Il messaggio è sempre quello: l’energia di domani dovrà necessariamente essere verde, generata in maniera distribuita sul territorio locale e sostenibile. Inutile disperdere risorse lungo altre strade, è davvero denaro buttato al vento.


Lo Staff di Rete Clima®