Belém e l’anno zero del clima: cosa resta della COP30 e la nuova geografia della transizione

Belém e l’anno zero del clima: cosa resta della COP30 e la nuova geografia della transizione

di Ferdinando Cotugno

Poco prima delle 21 del 22 novembre, il diplomatico brasiliano André Corrêa do Lagoha calato l'ultimo simbolico colpo di martelletto e ha decretato la conclusione di COP30, una delle conferenze sul clima più laceranti di sempre.

Due settimane di processo in cui è successo di tutto (compreso un incendio) hanno partorito alla fine un accordo fragile e poco ambizioso. Il Global Mutirão è un arretramento rispetto agli obiettivi dell'accordo di Parigi (il limite del grado e mezzo è ormai drammaticamente lontano) e anche rispetto all'ambizione del Global Stocktake della COP28 di Dubai del 2023, che aveva finalmente messo sul piatto il «transitioning away from fossil fuels».

Due anni dopo Dubai, l'abuso di carbone petrolio e gas nei sistemi energetici - la causa principale della crisi climatica - è sparito dai risultati ufficiali di COP30. Alle COP si decide per consenso tra i paesi ed è evidente che quel consenso sull'affrontare i problemi climatici dell'umanità oggi non c'è più, se mai c'è stato.

Le COP non producono leggi, ma segnali politici. Il segnale di Belém è stato: le fonti fossili di energia sono ancora politicamente forti e protette e il lavoro per scardinarle sarà lungo, e richiederà un tempo che climaticamente non abbiamo.

Allo stesso tempo, la COP30 di Belém ci ha mostrato che esiste un gruppo più ristretto, minoritario ma non esiguo, di Stati che credono ancora in una transizione ordinata, equa e veloce dalle fonti fossili di energia.

Questi paesi sono un'ottantina, sono diversi per dimensioni, prospettive e grado di dipendenza dal fossile: ci sono però anche alcuni produttori, come Australia, Norvegia, Colombia. Negli ultimi giorni di conferenza a Belém, hanno dimostrato di non riconoscersi più nelle lentezze e nelle difficoltà dell'attuale processo multilaterale sul clima e di essere alla ricerca di alternative. 

Questa è una delle eredità più significative di COP30: la transizione energetica globale è in corso, tanti sono in grado di rallentarla ma nessuno - nemmeno gli attuali Stati Uniti animati dal «drill baby drill» di Trump - ha il potere di fermarla.

Copyright © 2025 Ferdinando Cotugno

Nei prossimi decenni, questa transizione procederà a diverse velocità, a seconda del grado di vicinanza ai due poli energetici, quello fossile (USA, paesi del Golfo, Russia) e quello elettrificato (la Cina).

Quindi la domanda decisiva che COP30, pur con le sue difficoltà, ci ha restituito è questa: che alternative hanno i paesi che vogliono essere «first mover» della transizione energetica e non lasciarla interamente alla volontà di potenza industriale cinese?

Il Global Mutirão, cioè il testo ufficiale di COP30, ha proposto l'opzione più debole: si chiama Global Implementation Accelerator, un'iniziativa cooperativa, facilitativa e volontaria sotto la presidenza della COP, che faccia parte di un percorso chiamato Belém Mission to 1.5°C, per l'implementazione dell'accordo di Parigi.

È la proposta più ufficiale ma anche quella che ha lasciato tutti scontenti da COP30: è un labirinto di formalità senza nessun vero potere di azione o di intervento. La seconda opzione è la famosa roadmap di uscita dalle fossili, diventata l'oggetto politico più controverso di COP30: il Brasile non è riuscito nell'obiettivo di inserirla nel processo ufficiale, quindi ne ha creata due, volontarie e fuori dalla cornice negoziale ONU. Una è per le fonti fossili e l'altra è contro la deforestazione.

Entrambe serviranno a raccogliere input da scienziati, governi, società civile, industria, per poi presentare i risultati alla COP31 in Turchia. Il modello sembra essere la Baku-to-Belém Roadmap per la finanza: il problema è che quella roadmap finanziaria è stata del tutto inutile per gli obiettivi che si era preposta (moltiplicare la finanza per il clima dai 300 miliardi decisi a COP29 ai 1300 miliardi necessari).

Difficile pensare che la roadmap brasiliana possa avere risultati migliori. 

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La terza opzione è quella più incerta ma allo stesso tempo più promettente. Come tutte le iniziative concrete, questa prospettiva ha già un indirizzo e una data: Santa Marta, Colombia, 28 aprile 2026. Sono il «dove» e il «quando» della prima conferenza internazionale sull'uscita dalle fonti fossili, organizzata dal primo paese produttore - la Colombia di Gustavo Petro - a essersi posto seriamente il tema del futuro della sua economia in uno scenario in cui il mondo ha completato la transizione.

Una trentina di paesi hanno già aderito, nei prossimi mesi seguiranno altri. La conferenza di Santa Marta è un segnale di inquietudine da parte di chi da troppi anni non trova risposte politiche dentro un multilateralismo bloccato, paralizzato da veti e dagli interessi di pochi. 

L'iniziativa colombiana è anche la risposta concreta alla domanda: «Che futuro avranno le COP?». Il multilateralismo climatico per troppi anni si è cullato nel suo non avere alternative concrete, nell'idea che il processo era sì fallato e debole, ma era anche l'unico a nostra disposizione.

Le proposte di Colombia e Brasile (e quella più antica di un trattato di non proliferazione delle fonti fossili) sono dei progetti di creazione di un'alternativa. Sono ancora acerbi, hanno prospettive tutte da scrivere ma, al di là dei loro risultati, saranno uno stimolo al «fortino COP», un metodo politico concepito più di trent'anni fa che si sta dimostrando incapace di funzionare nel nuovo scenario, più conflittuale, più e transazionale e meno cooperativo. 

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Belém ci ha ricordato anche che le COP non sono solo quello che accade nella Blue Zone. Nel triennio della repressione tra l'accredito ONU e la partecipazione era stata assoluta, perché Egitto, Emirati e Azerbaijan non offrivano alcuno spazio di partecipazione civica all'esterno del negoziato. Il Brasile invece ha permesso il ritorno delle COP dentro le democrazie.

Le due settimane di Belém sono state un'esplosione di vitalità politica che ha fatto bene all'ambientalismo climatico, tra proteste degli attivisti indigeni, cortei, il controvertice della Cúpula dos Povos, e le flotille arrivate dai fiumi dell'America Latina e via mare dall'Europa.

Se l'ambientalismo europeo sta vivendo una fase di stagnazione dopo gli anni di euforia prima del Covid, quello latinoamericano ci ha ricordato quanto i movimenti siano ancora partecipati, radicati e popolari, animati da richieste concrete sugli aspetti più materiali dell'esistenza: la terra, l'acqua, il reddito, la sicurezza.

Da Belém il multilateralismo esce ammaccato e bisognoso di una riforma urgente.

L'ambientalismo invece sta decisamente bene ed è la notizia più luminosa di due settimane difficili.