Petrolio offshore in Italia: grandi trivellazioni e scarse royalties

Oceana, organizzazione internazionale per la difesa degli oceani, ha recentemente diffuso un comunicato stampa in cui contesta all’Italia la facilità nelle concessioni dei permessi per le esplorazioni petrolifere in ampie aree dei propri mari: le Isole Tremiti, Pantelleria, il canale di Sicilia e, notizia recente, anche una ampissima area al largo della Puglia vicina a numerose zone protette, dove le esplorazioni inizieranno nella prima metà del 2012.

L’Italia ha infatti appena concesso alla Northen Petroleum di effettuare prospezioni geo-sismiche su un’area di 6.600 chilometri quadrati di mare pugliese, accanto a numerosi Parchi ed aree protette.

Ad una prima riflessione appare strano che l’Italia, caratterizzata da un petrolio quantitativamente limitato e di scarsa qualità, sia piena di siti di trivellazione (come peraltro evidenziato anche da Greenpeace nella sua mappa dei siti di estrazione nazionale).

E’ una questione di picco di petrolio, di cui ancora oggi in pochi parlano, per cui si deve estrarre petrolio dovunque e a qualunque prezzo?

Non proprio, anche se il prezzo c’entra comunque.

Le compagnie petrolifere ambiscono infatti a lavorare in Italia perché, pur captando petrolio di qualità non elevatissima, per i pozzi offshore in Italia pagano allo Stato royalties bassissime (pari al 4%, a differenza del 30% ed il 50% come capita negli altri Paesi petroliferi), non pagano alcuna imposta per i primi 300.000 barili di petrolio ogni anno e per i primi 800 barili al giorno.

Un regime tarrifario chiaramente mirato a favorire la produzione nazionale di idrocarburi (e le imprese nazionali, che detengono la maggioranza delle autorizzazioni di estrazione) mediante il contenimento della fiscalità per le imprese.

Secondo Oceana queste prospezioni saranno dannose per la prateria sottomarina di posidonia, oltre a costituire un rischio per tartarughe di mare e cetacei: il tutto in un contesto in cui la normativa europea sulle piattaforme petrolifere offshore (che si fonda sul principio “chi inquina paga”) è incompleta.

Quale sarebbe l’impatto sull'ambiente marino e sul turismo legato ad un eventuale disastro petrolifero? E chi pagherebbe?

Non certo le compagnie petrolifere, come insegna la Bp ed il caso del golfo del Messico e come insegna l'esperienza Italiana, dove tradizionalmente i benefici sono per pochi ed i costi sono per tutti.

E poi bisognerebbe sempre ricordare che il petrolio è una risorsa non rinnovabile e finita, di cui si sta già modellizzando l'esaurimento (per lo meno dal punto di vista economico), di cui dovremmo imparare a fare a meno il prima possibile, per evitare il sommarsi di crisi su crisi (ambientale, economica ed energetica).

 

Lo Staff di Rete Clima