I veri costi (nascosti) sociali ed ambientali del carbone: esternalità a carico della collettività


L'uscita del rapporto di Greenpeace "The true cost of coal" (I veri costi del carbone) è notizia un po’ vecchia (fine 2008) ma è rilevante e “non passa mai di moda”: quindi eccoci qui a parlare del prezzo del carbone.

Sul mercato il carbone ha un prezzo ancora economico, e questa è la ragione per cui ancora si investe nella realizzazione di (vetuste) centrali di generazione elettrica così alimentate.

Ma se il carbone costa poco sul mercato, costa –invece- caro all'ambiente e alla collettività: si tratta della solita logica dei costi esterni (le “esternalità ambientali”) cioè i costi socio-ambientali generati da alcune attività umane che però non vengono quantificati né internalizzati nei costi di produzione delle medesime attività.

Si tratta di una di quelle diseconomie che l’economia neoclassica chiama “fallimenti del mercato”, cioè fattispecie in cui il mercato non riesce ad allocare i costi di produzione a chi realmente li origina, “spalmandoli” invece sulla collettività (che li paga in termini di peggioramenti della salute pubblica o dell’ambiente in cui vive, comunque riconducibili a somme economiche).

In questa logica è allora chiaro come alcune produzione ambientalmente incompatibili possano risultare economicamente vantaggiose: se non vengono contabilizzati e pagati tutti i costi (compresi quelli socio-ambientali che sono reali, sebbene magari localmente e/o temporalmente differiti rispetto al momento dell’emissione) è chiaro che non si ragiona in maniera reale, neppure dal punto di vista economico.

Venendo al rapporto “The true cost of coal”, qui Greenpeace International quantifica i costi nascosti del carbone, che nel solo 2007 ha provocato danni alla salute e all'ambiente per circa 356 miliardi di euro.

La teoria che cerchiamo di argomentare anche su questo sito con dati e numeri è che le scelte migliori per l’ambiente sono anche convenienti dal punto di vista economico: se si riuscissero a stimare tutti i costi legati a una scelta (in una logica di ciclo di vita del prodotto “dalla culla alla tomba”) si scoprirebbe che opzioni giudicate economicamente convenienti in realtà non lo sono affatto, perché trascurano di contabilizzare alcuni costi.

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Questa è una logica tanto più vera quanto più si ragiona su un periodo di lungo termine, ma l’economia è però purtroppo mossa da attori che ragionano sul breve o brevissimo periodo: in questo nostro sistema economico moderno di ogni azione vengono –quindi- sistematicamente ignorati tutta una serie di costi sociali e ambientali, difficili da monetizzare e spesso diluiti nel tempo, che vengono così scaricati sulla collettività.

Questo concetto è il perno su cui si fonda l’ultimo report di Greenpeace sul carbone, “The true cost of coal”, appunto: il report sostiene che se il carbone è considerata la fonte energetica più economica è solo perchè nel suo prezzo di mercato sono compresi solo i costi legati all’estrazione, al trasporto e alle tasse, e non tutti i costi esterni connessi ai gravi impatti per l’ambiente e per la salute legati ai suoi usi finali. Che –appunto- restano “costi nascosti”.

Ma quali sono queste voci di costo? Innanzitutto ci sono le emissioni di gas serra e i relativi effetti sul riscaldamento globale (il carbone è responsabile del 41% delle emissioni mondiali di gas serra e del 72% di quelle per la produzione di elettricità); la deforestazione; la distruzione di interi ecosistemi; la contaminazione di suoli e acque (le centrali a carbone sono la prima fonte al mondo di dispersione di mercurio); la la violazione di diritti umani sia dei lavoratori che delle comunità che vivono nei pressi delle miniere, delle centrali e dei siti di stoccaggio.

Questi impatti si tramutano in danni monetizzabili, come malattie respiratorie, incidenti nelle miniere, piogge acide, inquinamento di acque e suoli, perdita di produttività di terreni agricoli, cambiamenti climatici e altro ancora. Solo che la monetizzazione del danno viene –a questo punto- operata dalla collettività, che si trova a pagare per benefici economici che sono stati solo ad livello privato.

Tutti i costi di cui l’industria del carbone non risponde (e che “The true cost of coal” quantifica –appunto- per il solo 2007 in 356 miliardi di euro) sono inegualmente ripartiti: gli impatti sulla salute lungo tutta la filiera del minerale costano circa 1 miliardo, mentre il grosso dei costi esterni, 355 miliardi, è dovuto alle emissioni di gas serra.

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E i costi sociali ed ambientali a livello locale (quali le violazioni dei diritti umani, la distruzione di ecosistemi,….etc)? Quelli non vengono contabilizzati, è troppo difficile, altrimenti il valore dei danni del carbone sarebbero ancora maggiori.

Anche da questa stima approssimata per difetto è comunque chiaro l’enormità di quello che il mondo perde ogni anno per gli effetti collaterali di questa fonte energetica definita ancora “economica”: in dieci anni i costi esterni danno una cifra pari a circa sei volte quanto è costato agli Stati Uniti salvare le proprie istituzioni finanziarie dalla crisi. In Cina dove si fa ricorso al carbone per i due terzi del fabbisogno energetico nazionale - aveva segnalato un precedente rapporto sempre di Greenpeace in collaborazione con alcuni economisti cinesi - i costi esterni del carbone sono pari a 7 punti di prodotto interno lordo.

Ad aggravare il tutto c'è il fatto che la quota del carbone nel mix elettrico mondiale è in continua crescita: aumentata del 30% dal 1999 al 2006, se le tutte le centrali in progettazione al momento attuale venissero realizzate da qui al 2030 crescerebbe di un altro 60%, vanificando in pratica ogni sforzo per ridurre le emissioni di CO2.

Si è calcolato che le 150 centrali che quattro anni fa si sareberro dovute costruire negli Usa (progetti per ora ancora fermi) avrebbero emesso più CO2 di quanta ne devono ridurre i paesi che hanno firmato il Protocollo di Kyoto tutti assieme. Non è un caso dunque che per presentare “The true cost of coal” Greenpeace abbia scelto proprio Varsavia, capitale della Polonia, paese europeo che più conta su questa fonte energetica, storico “alleato” dell’Italia nella resistenza al pacchetto-clima Ue.

L’unica strada, a livello economico in primis, sono le fonti rinnovabili.


Lo Staff di Rete Clima®



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