Cop 18 di Doha: un’altra occasione persa

Cop 18 di Doha: un’altra occasione persa

A fine 2010 avevamo parlato dei risultati della Cop 16 di Cancun con la metafora di un bicchiere, allora chiedendoci se fosse mezzo vuoto o mezzo pieno: ma se i risultati di allora non sembravano particolarmente positivi, volendo analizzare i risultati della Cop 18 di Doha con la stessa metafora il bicchiere oggi dovrebbe essere probabilmente vuoto.

Dalla Cop 16 di Cancun sono passati 2 anni, anni in cui il clima globale ha dato prova di risentire in maniera sempre crescente delle emissioni antropiche di gas serra (procedendo con il suo riscaldamento senza freni), così come ne sta risentendo il sistema socio-economico globale: il Protocollo di Kyoto terminerà a fine anno ma non si vedono quelle azioni decise ed improrogabili che l'urgenza climatica richiederebbe.

La vera ed unica (purtroppo) novità di Doha è il documento finale approvato alla Cop, il "Doha climate gateway", una sorta di "ponte" che dovrebbe far passare dal vecchio sistema di contrasto al climate change basato sul Protocollo di Kyoto (e sui suoi impegni vincolanti), al nuovo sistema "Kyoto 2" basato in buona parte su obiettivi meno vincolanti (e comunque non ancora definito a livello di contenuti). Tutto ciò nonostante la scienza concordi nel dire che entro il 2015 le emissioni debbano necessariamente calare per poter sperare di restare entro i + 2°C di riscaldamento del pianeta (ed avere così effetti climatici relativamente contenuti), dovendo quindi avviare da subito azioni importanti per la salvaguardia del clima globale.

Al momento entro il 2015 abbiamo solo il poco concreto impegno di Doha di stabilire modalità e strumenti per colmare il gap tra emissioni attese (58 GtCO2eq), quelle raggiungibili con gli attuali impegni (52-57 GtCO2eq) ed il limite di 44 GtCO2eq che gli scienziati considerano invalicabile per sperare di limitare il riscaldamento climatico a + 2°C: si tratta di un gap enorme, che varia tra gli 8 e i 13 miliardi di tonnellate di CO2eq, un valore che ci porterebbe in maniera irreversibile verso un riscaldamento stimato tra i 3.5°C e i 6°C, e che sostanzialmente renderebbe invivibile il nostro Pianeta.

Tutto ciò mentre ancora risuonano le parole del controverso Todd Stern, caponegoziatore americano alla COP 18, secondo le quali il nuovo accordo non potrà "sottostare ai principi istitutivi della Convenzione": ci si aspetta quindi che principi basilari e primari nel Protocollo di Kyoto quali "equità" e "responsabilità storica e differenziata" (cioè chi ha più inquinato storicamente ha oggi più responsabilità ed oneri di riduzione emissiva), possano purtroppo ed incredibilmente essere svuotati di senso e di validità.

Prendiamo allora in prestito le parole dell'amico Alberto Zoratti, il quale su Altreconomia commenta così il nuovo "Doha climate gateway" che porterà al Kyoto 2: "Inizierà il 1 gennaio 2013 e si concluderà nel 2020, ma per ora è stata approvata solo la sua forma "legale" perchè nessun impegno sostanziale è stato preso sul taglio reale delle emissioni di CO2, di conseguenza se ne riparla il prossimo anno. A questo nuovo regime parteciperanno soltanto Unione Europea, Australia, Svizzera, Norvegia, che assommano sì e no al 15% delle emissioni totali, e la forte determinazione nel mantenere Kyoto è stato soprattutto per l'interesse economico rappresentato dai suoi meccanismi flessibili, come ad esempio il mercato del carbonio. Tra i pochi dati che vengono citati, la possibilità per i Paesi membri del Protocollo di tagliare entro il 2020 le proprie emissioni di una percentuale compresa tra il 25 ed il 40%".

I grandi assenti di questo pur vago e nuovo sistema sono la Cina, che ormai contribuisce per il 29% alle emissioni globali (avendo ormai oggi raggiunto il livello emissivo procapite europeo, pari a circa 7 tonnellate di CO2eq annue procapite), e gli USA che pesano per il 16% delle emissioni serra globali (con il record 17 tonnellate di CO2eq annue procapite!).

Altre cose non positive di Doha sono lo sganciamento dei Paesi emergenti (quali Brasile, India, Cina) dai Paesi poveri, i quali hanno capito che le politiche dei primi (grandi e crescenti emettitori) non erano più coerenti con le proprie.

E poi il "green found", approvato alla Cop 15 di Copnhagen (dicembre 2009) e che prevedeva il trasferimento di 100 miliardi di dollari all'anno di aiuti ai Paesi più poveri per le loro politiche di adattamento al climate change, di cui oggi è rimasto solo un vago eco (considerando gli stanziamenti unilaterali di Gran Bretagna, Germania e Ue si arriverà a malapena a 7 miliardi di dollari totali).

E l'Italia? Alle prese con la sua nuova ennesima crisi di Governo e con la Strategia Energetica Nazionale che punta ancora sulle fin troppo incentivate fonti fossili, non abbiamo molte speranze di fare la nostra parte.


Lo Staff di Rete Clima®