COP26: un approfondimento sui risultati e sul Glasgow Climate Pact

COP26: un approfondimento sui risultati e sul Glasgow Climate Pact

Nel tardo pomeriggio di sabato 13/11, con circa un giorno di ritardo, la COP26 si è infine conclusa. Il risultato è stato definito soddisfacente da più parti, anche se non all’altezza delle aspettative: un bicchiere mezzo pieno, insomma.

Prima di addentrarci nella panoramica dei principali risultati, vale la pena sottolineare che “il processo negoziale va inteso come un percorso del quale le COP e i negoziati intermedi costituiscono numerose tappe. […] I testi degli accordi non nascono nelle due settimane l’anno in cui i media dedicano spazio ai negoziati sul clima, bensì […] ogni nuovo progresso si fonda sui precedenti” (Federico Brocchieri, membro del gruppo tecnico negoziale per Italia ed EU, I negoziati sul clima, 2020).

La prima settimana

Nell’articolo “COP26: i risultati della prima settimana di lavori, tra luci ed ombre”, vi abbiamo raccontato i risultati della prima settimana della COP26: impegni multilaterali sulla mitigazione, estranei in realtà al negoziato formale, che potremmo definire “aggiuntivi”. Sono stati interpretati come tentativi della Gran Bretagna di creare nuovi contesti per cui la COP26 potesse essere definita un successo anche in caso di esiti deludenti del negoziato formale.

Qualunque fosse l’intento della Gran Bretagna, si è comunque trattato di impegni significativi, specie nel campo della lotta alla deforestazione e della riduzione delle emissioni di metano, che, nonostante l’assenza di Russia e Cina nel secondo, hanno coinvolto i principali attori dei due ambiti.

Assenti Cina, India e Australia, sono stati meno partecipati gli accordi sulla cessazione graduale dei finanziamenti pubblici al fossile all’estero e sul phase-out del carbone.

Crediti: Climate Action Tracker. Potenziale di iniziative settoriali (metano, deforestazione, uscita carbone, mobilità elettrica) annunciate a COP26 per colmare il divario di emissioni del 2030 oltre ai nuovi aggiornamenti NDC di Glasgow


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La seconda settimana

Ma veniamo alla seconda settimana di negoziati, quella in cui vengono prese le decisioni politiche sui risultati della negoziazione tecnica, con la presentazione di un documento finale, approvato in plenaria nel momento in cui non vi sono ulteriori obiezioni da parte dei paesi.

Il Glasgow Climate Pact

L’accordo finale della COP26 ha preso il nome di Glasgow Climate Pact e, secondo quanto dichiarato dal presidente della COP26 Alok Sharma, mantiene “gli 1,5°C [l’obiettivo più ambizioso degli Accordi di Parigi della COP21] vivi. Ma il loro battito cardiaco è debole”.

1. Mantenere vivo 1.5°C: mitigazione

La migliore scienza disponibile e i fossili

Il patto fa infatti riferimento alla “miglior scienza disponibile” (cioè l’ultimo report dell’IPCC AR6) per sottolineare in modo forte che l’obiettivo è quello di rimanere sotto gli 1.5°C a fine secolo.

A questo fine, viene riconosciuto che occorre ridurre le emissioni di CO2 del 45% entro il 2030 (rispetto al 2010), per poter raggiungere il net-zero attorno al 2050. Purtroppo, si parla di “attorno” perché alcuni paesi hanno previsto di arrivarci al 2060 (Cina) o al 2070 (India).

COP26 non ha "consegnato il carbone alla storia" come promesso, ma per la prima volta in una COP si riconosce che l'uso del carbone e di altri combustibili fossili deve essere rapidamente ridotto per affrontare l'emergenza climatica. Si era partiti nella prima bozza da un più ambizioso invito ad accelerare il “phasing-out” (fuoriuscita) dal carbone, per poi arrivare all’ultimo momento ad un “phasing-down” (diminuzione) del solo carbone “unabated” (cioè senza sistemi di cattura e stoccaggio della CO2, tecnologie in realtà ancora non applicabili su larga scala).

Viene mantenuto nel documento finale il “phase-out” dei sussidi ai fossili, anche se solamente ai fossili “inefficienti”.

“Calls upon Parties to accelerate […] efforts towards the phasedown of unabated coal power and phase-out of inefficient fossil fuel subsidies” COP26 Cover decision

Da notare che la modifica da “phasing-out” a “phasing-down” è stata posta proprio all’ultimo, a causa dell’opposizione dell’India, ed è frutto di un accordo in extremis e “non trasparente” (come sottolineato da molti delegati durante la plenaria) tra USA, Cina e India stessa.

Tutti gli altri stati hanno accettato la modifica solo per poter portare a casa gli altri risultati della negoziazione.

Crediti: Unsplash. Miniera di carbone in Indonesia

NDCs

Il testo finale rileva che gli attuali piani climatici nazionali, i cosiddetti NDCs (Nationally Determined Contributions), sono lontani da ciò che è necessario per contenere la temperatura a +1,5°C: a tal fine, si chiede ai paesi di presentare nuovi piani aggiornati già l'anno prossimo alla COP27, anziché tra altri cinque anni, come era previsto dall’Accordo di Parigi.

Inoltre, viene fissato un orizzonte temporale comune a 10 anni per tutti gli NDC presentati a partire dal 2025 (e poi sempre decennali da comunicare ogni 5 anni). Questo permette finalmente di confrontare tra loro tutti gli impegni dei paesi, cosa che non era stato possibile fare finora, data la totale mancanza di allineamento in tal senso.

Come sottolineato dall’associazione Italian Climate Network, “purtroppo, il testo viene approvato con una clausola di salvaguardia per quei paesi che per qualsiasi motivo non saranno in grado di comunicare il proprio NDC secondo le nuove regole già nel 2025, rimandando la presentazione dei nuovi impegni al 2030 con orizzonte 2040.”

2. Adattamento

Il patto presenta un buon equilibrio fra adattamento e mitigazione, riconoscendo l’importanza del primo. Viene approvato un programma di lavoro di due anni (“Glasgow Sharm-El-sheikh Work Programme”), che mira a monitorare le azioni di adattamento dei Paesi.

Nel testo si chiede con urgenza ai paesi sviluppati di “almeno raddoppiare” i finanziamenti per l'adattamento (rispetto ai valori del 2019) entro il 2025; si riconosce che bisogna fare passi in avanti per raggiungere un bilanciamento tra risorse destinate alla mitigazione e all’adattamento.

3. Finanza

I finanziamenti sono stati al centro dei colloqui della COP26.

Purtroppo, i paesi sviluppati non hanno mantenuto fede alla promessa fatta nel 2009 a Copenhagen di fornire ai paesi poveri 100 miliardi di dollari all'anno - entro il 2020- per sostenere la transizione energetica. Questo è stato un punto cruciale del dibattito perché i paesi in via di sviluppo hanno chiesto non solo di onorare la promessa, ma di aumentare la cifra, soprattutto in seguito alla pandemia.

Invece, il testo semplicemente “esorta” i paesi sviluppati a “realizzare pienamente” l'obiettivo di 100 miliardi di dollari fino al 2025 (per un totale quindi di 600 miliardi), pur sottolineando la “necessità di mobilizzare la finanza climatica […] oltre i 100 miliardi $ l’anno”.

4. Loss and damage

Il meccanismo "loss & damage" è uno strumento, mai realmente decollato, che dovrebbe servire per rimediare alle perdite derivanti dal manifestarsi delle conseguenze del cambiamento climatico (ad esempio eventi meteo estremi) quando non è possibile predisporre in anticipo alcuna forma di adattamento. Per i paesi più poveri, un meccanismo di questo tipo sarebbe fondamentale per far fronte a quanto già stanno subendo.

Crediti: Pixabay

Anche su questo punto c’è stata grande delusione: la proposta di creare una nuova “Glasgow Loss and Damage Facility”, uno strumento formale di coordinamento e azione con propri staff, riunioni annuali, inclusione di portatori d’interesse ed attori locali, è stata respinta con forza da USA ed Europa. L'accordo finale riconosce solo il diritto a perdite e danni, prevedendo una serie di quattro incontri entro il 2023, senza però indicare né date certe per una decisione, né se ci sarà effettivamente un flusso di denaro.

Il Rulebook di Parigi

Finalmente, dopo 6 anni di negoziazioni, è stato finalizzato il “Paris Rulebook”, l’insieme dei meccanismi per l’implementazione operativa degli impegni di Parigi. In particolare, si è trovato un accordo sulla regolamentazione del mercato dei crediti di carbonio (Articolo 6) e sulla Trasparenza.

“Questo è un risultato eccellente! Significa che l’Accordo di Parigi può ora funzionare pienamente per il beneficio di tutti, ora e nel futuro - Patricia Espinosa, Segretario Esecutivo della UN Climate Change

1. Articolo 6

L’articolo 6 dell‘accordo di Parigi prevede tre meccanismi separati per realizzare una “cooperazione volontaria” al fine di raggiungere gli obiettivi climatici.

Il primo meccanismo permetterebbe a un paese che ha superato il suo target relativo alle emissioni di vendere qualsiasi risultato in eccesso a una nazione che non abbia raggiunto i suoi obiettivi. Tali risultati sono denominati ITMO (“Internationally transferred mitigation outcomes”).

Crediti: German Emissions Trading Authority (DEHSt) Figura 2 Application of corresponding adjustments to reported emissions

Il secondo meccanismo creerebbe un nuovo mercato internazionale del carbonio, governato da un organismo delle Nazioni Unite, per lo scambio di riduzioni di emissioni create ovunque nel mondo dal settore pubblico o privato. Questo nuovo mercato viene chiamato “Meccanismo di sviluppo sostenibile” (SDM) e deve sostituire il “Clean development mechanism” (CDM) del Protocollo di Kyoto.

Il terzo meccanismo, riguardante i cosiddetti “approcci non di mercato”, non è ancora ben definito, ma fornirebbe un quadro formale per la cooperazione climatica tra i paesi in contesti non commerciali, come ad esempio quelli degli aiuti allo sviluppo.

Si era lungamente discusso sul problema del doppio conteggio degli ITMO (cioè su come evitare che le riduzioni delle emissioni siano conteggiate sia negli NDC della nazione ospitante che in quelli della nazione acquirente), su cosa fare delle riduzioni già create con il vecchio CDM di Kyoto (conteggiarle o no?) e, da ultimo, se garantire o no una fetta di proventi dei mercati del carbonio ai Paesi in via di sviluppo per l’adattamento, come già succede per i crediti CDM.

Gli esperti stanno ancora analizzando le implicazioni tecniche del testo definitivo: secondo Italian Climate Network, “dalle prime analisi emergono delle aree grigie importanti, che potrebbero permettere scappatoie burocratiche”, soprattutto nell’ambito della protezione degli ecosistemi e dei diritti umani.

2. Trasparenza

Per poter tracciare ritardi e progressi nell’implementazione dell’Accordo di Parigi, è stato predisposto un “quadro potenziato per la trasparenza” (Enhanced Transparency Framework), cioè un insieme di prescrizioni in termini di rendicontazione e monitoraggio dei progressi nella mitigazione. Queste dovranno essere seguite da tutti i paesi, ma con flessibilità specifiche per quelli sprovvisti di sufficienti capacità economiche o scientifiche, o, in realtà, restii a dichiarare i propri dati (o le proprie mancanze).

Sostanzialmente, le negoziazioni hanno definito il formato di tabelle Excel nelle quali ogni stato dovrà riportare i dati sulle proprie emissioni divisi per settore economico e tipo di gas serra. Ogni governo potrà dunque controllare i progressi altrui, e, a sua volta, essere controllato.

Finalmente, si è trovato un accordo sulle opzioni di flessibilità. Non sarà possibile per alcun paese omettere completamente dati che non riesce (o vuole) comunicare: al posto del dato mancante si dovrà inserire un simbolo “FX”, motivando la scelta a margine.

Questo nuovo sistema entrerà in vigore a partire dal 2024.

L’accordo USA-Cina

Crediti: Reuters

Infine, la seconda settimana di negoziato ha riservato un’ulteriore novità anche sul fronte degli impegni bilaterali: nel tardo pomeriggio di mercoledì 10 novembre, alquanto inaspettato dato l’attuale contesto geopolitico, è stato annunciato un accordo di collaborazione tra USA e Cina.

I due paesi hanno deciso di collaborare per il mantenimento della crescita delle temperature medie globali entro 1,5°C, rafforzando l’azione congiunta proprio nel decennio 2020-2030, definito “critico” nello stesso Glasgow Climate Pact.

Questo si tradurrebbe, in pratica:

  • nella collaborazione sulle rinnovabili, con l’impegno da parte degli USA di arrivare al 100% di energia verde per il 2035 e lo sforzo della Cina nel diminuire la quota di carbone nella generazione elettrica nel prossimo piano quinquennale;
  • in un lavoro congiunto di forte limitazione delle emissioni di metano nel settore oil&gas entro il 2030 (un vertice bilaterale sul tema è già previsto per la prima metà del 2022);
  • nella creazione di un gruppo di lavoro apposito tra i due paesi.

«La cooperazione è l'unica scelta possibile. Vogliamo continuare a lavorare con gli Stati Uniti per affrontare una emergenza che mette a rischio la nostra stessa esistenza», ha commentato il rappresentante cinese.

Concludiamo con il commento di Antonio Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite:

ET e PV per Rete Clima