Rapporto “Moda e animal welfare” di Blumine: la sostenibilità passa anche per il rapporto con gli animali

Rapporto “Moda e animal welfare” di Blumine: la sostenibilità passa anche per il rapporto con gli animali

Era il lontano 1980 quando venne fondata la PETA (“People For The Ethical Treatment Of Animals”), un’organizzazione animalista con sede a Norfolk, Virginia, che ad oggi conta oltre 800mila attivisti in tutto il mondo. Da allora si è resa famosa per le sue compagne in difesa del benessere animale.

E' proprio dalla fine degli anni '70 che l’industria della moda, almeno limitatamente ai brand più prestigiosi, ha iniziato a ridefinire le proprie scelte in merito all’utilizzo o meno di pellicce e pelle (politiche cosiddette “fur-free”).

Inoltre le start-up e i marchi dichiaratamente “vegani”, o “animal-free”, sono diventati sempre più numerosi, con un’offerta in rapida crescita di capi e di accessori privi di materie prime di origine animale.

Il tema è interessante e non deve essere considerato solo come una "questione etica" (che sarebbe comunque già di per sè importante), dato che coinvolge una serie di temi molto attuali come gli allevamenti (spesso intensivi), l'uso locale delle risorse, i trasporti degli animali vivi, la tutela della biodiversità,...etc.: questioni che sono peraltro a loro volta strettamente collegate anche con temi sanitari, che la pandemia legata al COVID-19 ha posto sotto gli occhi di tutti.

moda sostenibile

La moda sostenibile

Il panorama è ormai mutato nell’ottica di una più ampia visione di sostenibilità, tema che coinvolge sempre più da vicino soprattutto i più giovani, clienti attuali o futuri dell’industria della moda: la tutela degli animali è al centro dei goal n. 14 ("La vita sott’acqua") e 15 ("La vita sulla terra") dell’Agenda della Sviluppo Sostenibile 2030, ma il ruolo degli animali nel sistema economico globale è trasversale e collegabile ad altri SDGs (goal n. 2, “Sconfiggere la fame”, goal n. 13 “Adottare misure urgenti per combattere il cambiamento climatico e le sue conseguenze”, goal n. 12 “Garantire modelli sostenibili di produzione e di consumo”).

Come viene sottolineato dall’autrice del report, Aurora Magni:

"Ad essere ripensato da questa nuova angolatura è il concetto stesso di sviluppo sostenibile che basa la sua ragion d’essere sulla difesa delle biodiversità e dei delicati equilibri che regolano la vita sulla Terra […] I marchi della moda impegnati per la sostenibilità si trovano quindi a riscrivere la propria identità (anche) su questi temi“.

Moda sostenibile: SDGs Agenda 2030

Il report di Blumine s.r.l. "Moda e animal welfare"

Il report è stato realizzato da Blumine s.r.l., con il coordinamento di Aurora Magni: si tratta un'Azienda impegnata da anni nel settore della moda sostenibile, composta da un gruppo di professionisti e ricercatori unitosi proprio con la missione di creare valore nelle filiere della moda e del design applicando i principi della sostenibilità. Il report ha lo scopo di “fornire una fotografia dei trend in atto e delle azioni intraprese dai vari protagonisti del dibattito”.

Nel report si parla di fibre di origine animale, intendendo lana da pecore (tra cui la pregiata merino), alpaca, angora dai conigli, seta dai bachi, piuma dalle oche, cashmere dalle capre. Queste si aggiungono ovviamente alle tradizionali pelli e pellicce.

Produzione fibre tessili. Fonte: Textile Exchange, 2019

Le fibre animali hanno un ruolo marginale nella filiera della moda: annualmente vengono infatti prodotti circa 1,6 milioni di tonnellate di lana, seta, fibre nobili, piume, pari all’1,5% della produzione globale di fibre, contro i 25,7 milioni di tonnellate del cotone o addirittura i 57 milioni di tonnellate del poliestere (Fonte: Textile Exchange)".

Ma sarebbe sbagliato identificare il loro grado di importanza solo sulla base di questi numeri.

Lana, seta, cashmere e piume sono materiali che assicurano qualità, unicità ed eccellenza e contribuiscono a stabilire il valore commerciale del capo. Sono però anche tra i più criticati, non solo dagli animalisti ma anche da un punto di vista di sostenibilità del prodotto finale.

L’analisi effettuata da Blumine s.r.l. si è basata sulla consultazione dei bilanci di sostenibilità relativi all’anno 2019 di 15 marchi della moda, che, insieme, con un fatturato complessivo nel 2019 di 160 miliardi di euro, rappresentando il 14% del mercato globale della moda.

Si tratta dei marchi: Benetton Group, Chanel, Columbia, Gruppo Armani, Helly Hansen, Hermes, H&M, Inditex, Jack Wolfskin, Kathmandu, Kering, LVMH, Richemont, Stella McCartney, Capri Holding (Michael Kors, Jimmy Choo, Versace).

Ecco in sintesi quanto emerge dall’indagine.

Tra i marchi presi in considerazione:

4 rimandano a generali dichiarazioni d’impegno e non forniscono indicazioni specifiche sulle proprie strategie in relazione ai singoli materiali utilizzati;

11 informano gli stakeholder in merito ai propri criteri di selezione dei materiali utilizzati o alla rinuncia ad utilizzare specifici materiali: in particolare la rinuncia riguarda pelliccia, lana d’angora e mohair. Tra questi solo uno dichiara di aver istituito un sistema di tracciabilità e verifica delle fonti di approvvigionamento con visite ispettive.

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Posizioni dichiarate da 15 brand della moda in merito ai materiali di origine animale

Possibili soluzioni: sistemi di certificazione

Sull’onda della crescente sensibilità verso gli animali e del crescente interesse tra gli stakeholder nei confronti dei temi della sostenibilità, oltre a rinunciare all’utilizzo di materiali di origine animale, i principali brand hanno adottato modalità di controllo sulle filiere di approvvigionamento (supply chain).

Sono nati così sistemi di certificazione, validati da enti indipendenti, che permettono il monitoraggio degli allevamenti e dei fornitori di fibre, per quanto riguarda le condizioni di vita degli animali e le modalità di prelievo delle fibre stesse. A volte, il controllo è esteso anche ai produttori che operano in aree del mondo lontane e particolarmente critiche, tramite l’utilizzo di piattaforme digitali per la raccolta e la condivisione dei dati, così da poter tracciare la storia del prodotto e le modalità con cui è stato realizzato.

Tra gli standard più adottati ricordiamo:

Norma UNI 11737:2019: oltre ad altri aspetti, stabilisce le modalità di trattamento dei conigli allevati per la produzione d’angora.

RAS, RWS, RMS: gli standard di Texile Exchange per alpaca, lana e mohair responsabili.

Standard Good Cashmere: sistema di valutazione del cashmere prodotto con criteri di sostenibilità e benessere animale.

ZQ Merino: rilasciata da The New Zealand Merino Company, assicura che gli allevamenti non applichino il mulesing (un intervento chirurgico che mira, rimuovendo lembi di pelle perianale dei cuccioli, a eliminarne le pieghe e a ridurre le possibilità che i parassiti, deponendovi le uova, generino una pericolosa infezione) e che siano rispettosi del benessere delle pecore.

Global Traceable Down Standard: è rilasciato dalla National Sanitation Foundation. NSF può certificare tutti gli elementi della catena di fornitura della piuma secondo il nuovo Global Traceable Down Standard, che garantisce che il materiale provenga da allevamenti e da filiere tracciate che rispettino il benessere degli animali.

Down pass: rilasciato da European Down and Feather Association, che comprende 90 imprese dell’industria delle piume. Certifica che i prodotti provengano da animali macellati o che le piume siano state correttamente raccolte durante la stagione della muta.

Altri effetti dell’industria della moda

Nell’ambito dell’impatto sulla sostenibilità ambientale del sistema economico, l’industria della moda gioca il proprio ruolo su due diversi fronti: in primo luogo utilizza materie prime di origine animale o sintetica attivando intere filiere di approvvigionamento; in secondo luogo, attraverso i processi di produzione e la vita stessa dei prodotti, può alterare l’habitat naturale minacciando la sopravvivenza di una gamma ben più vasta di animali.

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Fonte: Pixabay

In particolare, il report pone l'attenzione, oltre che sulle fibre di origine animale, anche su cotone, fibre cellulosiche, plastiche e microfibre. Le colture intensive del cotone sono note per i notevoli consumi idrici e l’ampio utilizzo di sostanze chimiche con effetti preoccupanti sulla biodiversità: la diffusione del cotone biologico, coltivato cioè senza l’utilizzo di sostanze chimiche, e il riciclo dei materiali possono essere d’aiuto nel limitare l’impatto sui delicati equilibri degli ecosistemi.

Le fibre cellulosiche prodotte da legno contribuiscono alla deforestazione, quindi sarebbe opportuno adottare sistemi di forestazione controllata (certificati FSC o PEFC).

Secondo dati ONU del 2017, nei mari ci sono 51mila miliardi di particelle di microplastica, ed il lavaggio dei capi sintetici sarebbe la causa del fenomeno nella misura del 35%: sarebbe dunque utile ottenere nuovi materiali tessili dal riciclo di oggetti in plastica e reti da pesca, nonché adottare modalità di costruzione del capo tessile che riducano la dispersione delle microfibre.

Per quanto riguarda le emissioni di CO2, uno studio di Greenpeace basato su dati FAO riporta che l’allevamento di animali rappresenta il 17% delle emissioni totali di CO2. Naturalmente lo studio si riferisce ad allevamenti intensivi per la produzione di prodotti alimentari, e sappiamo che la moda utilizza in realtà sottoprodotti di quella filiera, con le conseguenti difficoltà nell’attribuzione tra i due ambiti.

Per non parlare poi delle emissioni climalteranti risultanti dalla produzione di fibre sintetiche, che, derivando da combustibili fossili, contribuiscono a loro volta in misura notevole all’aumento dei gas serra in atmosfera.

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Microplastiche. Fonte: Flickr

Conclusioni

Il rapporto affronta il problema del benessere degli animali utilizzati per la produzione di filati e tessuti partendo da un approccio olistico che mira a considerare la complessa interdipendenza tra le componenti del Sistema Terra, unione di biosfera (animali e piante), antroposfera (consumatori, ma anche produttori), geosfera.

Secondo gli autori, nell’affrontare questo argomento ci si deve occupare non solo di animali, ma anche dell’ambiente e delle comunità che dal loro allevamento e dalla trasformazione delle fibre traggono sostentamento. “La moda può giocare un ruolo importante sostenendo le comunità più svantaggiate, verificando le condizioni di vita degli animali, investendo in azioni di formazione e sensibilizzazione, avvalendosi dei sistemi di tracciabilità e di verifica disponibili”.

Il documento si chiude con una riflessione: “Ci piace pensare che proprio la moda, per la valenza culturale e il valore comunicativo dei suoi prodotti e delle sue attività, possa diventare il luogo in cui nuove sensibilità e pratiche diventano esemplificative di modelli sostenibili di relazione tra industria e natura. A partire dal rispetto dovuto agli altri abitanti del Pianeta”.

ET e PV per Rete Clima

Il rapporto integrale è scaricabile al sito:

https://sustainability-lab.net/2021/04/01/moda-e-animal-welfare-di-aurora-magni/


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